02 novembre 2011

RIVER TO RIVER FLORENCE INDIAN FILM FESTIVAL 2011



L'undicesima edizione del River to River Florence Indian Film Festival si svolgerà dal 2 all'8 dicembre 2011. Le proiezioni si terranno al cinema Odeon. Vi segnalo di seguito alcuni dei titoli in cartellone: Zindagi Na Milegi DobaraGandu (2010, bengali) di Q, I amDhobi Ghat (pellicola di chiusura). Cito inoltre il film pachistano Bol.
(Grazie a Diana e a Cristina per la segnalazione)

Aggiornamento del 6 dicembre 2011: il regista Q, presente in sala alla proiezione di Gandu, ha concesso un'intervista a Paolo Russo per La Repubblica. Di seguito un estratto: 

'Con un linguaggio visionario di formidabile tensione fra b/n e colore, Gandu rivela un paese cupo di conflitti sociali e disperazioni metropolitane, di inarrestabili derive collettive e individuali. Un'India lontana da ogni stereotipo vecchio e nuovo, narrata al ritmo serrato di un feroce rap autoctono, che nulla a che fare con gansga, Bentley e donne mozzafiato. Perché a quel ritmo tribale e convulso lo sbandato ottuso ventenne protagonista consegna i suoi miseri sogni e il suo odio per un mondo che non lo vuole. Così come lui non lo vuole.

Lei si è laureato in arti all'Università di Calcutta, ha diretto moltissimi commercial e video clip, si ispira al cinema d'autore indipendente europeo e giapponese: come si è formato?
"Ho imparato a fare cinema guardando i film che comperavo in un negozio all'angolo della strada a Colombo: titoli che sceglievo un po' a casaccio fra quelli che potevano essere del mio genere. Avevano il più strano catalogo in quel posto, e così abbastanza rapidamente sono diventato amico di Harmony Korine, Takashii Miike, Sion Sono, Kim Ki Duk, Mike Figgis, Lars Von Trier, Spike Lee, Tom Twyker, Werner Herzog e tanti altri maestri. Non sono mai stato troppo attratto dal cinema classico, sebbene da ragazzo cresciuto nella culturalmente vivace Calcutta, avevo un discreto livello di esposizione a quel genere di cinema. L'India però, fin dai primi Novanta, ha sviluppato una forte rete underground di produzioni musicali e cultura alternativa, ed io vi ero profondamente coinvolto. Così quando ho visto il riflesso di quella mentalità digitale, l'approccio post moderno arrivare al cinema, ne sono stato folgorato. I miei primi film erano dei puri esperimenti video, clip musicali e corti, prima che arrivassi al primo film, Tepantorer Maathe, che è rimasto incompiuto. Era ispirato a Dogma, il manifesto di Von Trier, e a quel tempo l'India, specialmente Calcutta, non era preparata a una tale 'cosa'. Capii subito che senza forti basi tecniche e produttive non avrei potuto fare il cinema che volevo. Inoltre, a proposito delle storie che m'interessavano, i documentari stavano diventando sempre più  interessanti per me, grazie alla scoperta di Shyamal Karmakar, Paromita Vohra, Amitabh Chakraborty e veterani come Anand Patwardhan. Cominciavo a identificarmi con le idee degli attivisti, e a sentire il bisogno di condurre le mie esplorazioni in un contesto socio politico piuttosto che nel segno del mercato. Questo porta al mio film successivo, che mi consentì di lasciare il lavoro in pubblicità e tornare a Calcutta e avviare Overdose, la mia casa di produzione. Si chiamava Love In India, ed è stato il primo film indipendente prodotto nell'ambito di una coproduzione internazionale dall'India: lo terminai nel 2009, fu poi presentato in alcuni festival e trasmesso da una dozzina di reti in Europa. Oltre a questo, ho messo in piedi un'altra fiction sperimentale, Poison, e alcuni corti documentari. Al momento sto girando un documentario che si chiama Sari mentre ho da poco finito le riprese della mia nuova fiction, intitolata Tasher Desh (La terra delle carte, ndr)".

Ho letto che lei a un certo punto ha scelto di tornare a vivere nella sua Calcutta...
"Una delle ragioni di questo ritorno a casa è stata la lingua Bengali: ne sono innamorato e fare film in Bengali era per me una scelta irrinunciabile. Poi, certo, è anche la mia città, e la ricchezza e la libertà intellettuale che offre in India non temono confronti. In più c'è una scena cinematografica - alcuni nomi della quale ho menzionato prima - attiva da Calcutta, dove la voce del dissenso non è stata soffocata come invece in molte altre parti del paese".

Che rapporto ha con la musica sia indiana che occidentale?
"La musica è la mia prima passione. I miei film sono tutti musical. Sono cresciuto circondato dalla musica, son stato un musicista appassionato fin da quando ho ricordo della mia vita, e anche da ascoltatore ho sempre privilegiato la musica Bengali: la musica dei film Hindi mi ha sempre lasciato freddino. Come tanti altri intorno a me ho sviluppato da giovane un certo gusto per il rock, ma è stato, di nuovo, un eroe locale, Suman Chatterjee, che mi ha dato l'ispirazione decisiva per gettarmi nel mondo della musica: ci sono sempre stati a Calcutta, fin dai Settanta, anche altri musicisti locali che si sono spinti oltre i limiti sperimentando con le forme. Ed è esattamente questo che mi piace fare. Quando è partita la rivoluzione elettronica, e insieme l'accelerazione impressa dalle sostanze psichedeliche, mi ha risucchiato completamente. Così, da neo hippy, ho preso a frugare sempre più nel sublime mondo di Bjork, Massive Attack e, più tardi, della scuola minimalista. Durante tutto ciò ho bighellonato con la musica, aiutato, specie nei miei film, da molti amici e ben più preparati musicisti. Queste influenze sono culminate nell'esplosione nel movimento dell'Asian Underground, nel quale una subcultura completamente nuova è emersa. Il perfetto amalgama di Est e Ovest: una musica nella quale potevo identificarmi completamente".

C'è una scena rap in India? Com'è organizzata?
"Il rap non esiste in India: quel po' di hip hop che può accadere di sentire viene da qualche porcheria di colonna sonora di Bollywood. Di recente però, dai bassifondi di varie città, Chennai nel profondo sud, dal Kashmir straziato dalla guerra, dai ghetti di  Bombay, son venuti fuori alcuni giovani rapper; ma non si può parlare di una scena, quel che c'è è decisamente underground. La qualità della protesta e i temi politici del rap usati in Gandu riflettono solo i miei valori e ciò che io penso della nostra società: ma anche gli altri giovani rapper che ho scoperto in seguito hanno spinte ribelli analoghe alla mia. Un fatto che mi ha molto ispirato, spero che questo fronte divenga sempre più forte. C'è un grande, disperato bisogno nel nostro paese di svegliarsi e iniziare a comprendere dove siamo diretti. L'India è un paese incredibilmente giovane e si trova sulla cuspide di una svolta in termini di dinamiche sociali. Le barriere di lingua e di classe, le politiche interne che risultano stupide e restrittive, cominciano a mostrarsi molto più fragili di quanto non siano mai state. Il rap è un modo geniale di esprimere una prospettiva individuale, tenendo il tempo sul beat più antico".

Il suo linguaggio cinematografico appare esplosivo, all'ultimo respiro, a metà fra l'intensità di un videoclip e il ritmo, la prospettiva più ampia del racconto filmico: lei lavorava già così o è una svolta cui è giunto con Gandu?
"Credo che questo senso di all'ultimo respiro mi sia arrivata con Gandu, nel momento in cui i tempi sono cambiati e l'India si è fatta sempre più instabile nei suoi assetti. La sensibilità da clip è entrata nel film in modo molto organico, guardando indietro ai giorni in cui i primi video musicali venivano usati come estensioni delle fughe in avanti dei musicisti, visualizzate da un film maker. Quando ho giustapposto la più classica costruzione di un racconto socialmente rilevante con la stilizzazione di una clip di lungo formato, mi è sembrato che caricasse, riempisse lo schermo: era anche questo un esperimento e sono contento che sia riuscito".

In Gandu non c'è traccia di religione né spiritualità, ma neanche di boom economico, commedia e "pace e amore": nel film si vede un'India che da fuori si può al massimo appena supporre. Come ha concepito il film? Dove ha trovato la storia?
"In India c'è questo, quello e quell'altro ancora. Questo è il modo in cui io vedo il mio paese. La storia era, come dire, intorno a me da un sacco di tempo, e l'abbiamo avuta intorno, noi sei della troupe, per i quattro mesi della lavorazione. Non ho voluto una sceneggiatura, abbiamo lavorato sulla base di una breve nota che fissava l'andamento drammatico e basta: questo perché potessimo avere il massimo dell'autenticità e reagire nel modo più pronto in ogni momento mentre giravamo e costruivamo la storia. C'erano frammenti nelle nostre memorie, il che forse si è insinuato e ha poi come colorato le scene, ma si è trattato soprattutto di avere a che fare con le reazioni primarie al contesto immediato del film, delle sue location, del tempo e dell'essere del personaggio. Ho girato Gandu come un documentario, solo immaginando che fosse vero".

I pericoli sociali e l'ingiustizia sono probabilmente i temi cruciali della globalizzazione: quanto contano nell'India contemporanea, della quale il mondo sembra percepire ora solo l'impressionante crescita economica e dimenticare del tutto l'enormità dei problemi per i quali era famosa in tutto il mondo fino a vent'anni fa?
"Angosce sociali e ingiustizia sono senz'altro i temi cruciali anche dell'India di oggi. Quello che la nostra politica estera è riuscita con successo a difendere è un'enorme inquietudine che circola ovunque nel paese. C'è invece ad esempio un tremendo conflitto tribale, con violente fazioni maoiste e le forze governative prese in un conflitto all'ultimo sangue. Nel nord est ci sono interi stati completamente inaccessibili. La nuova faccia cosmopolita e capitalista del paese è confinata nella città, dove il danaro è il nuovo dio. Il resto del paese, circa il 95 %, è nello stesso stato di estrema difficoltà: conflitti etnici, di classe e casta, infanticidi, violenza sulle donne proseguono immutati. Ma l'India è davvero strana, ha una maniera di bilanciare tutto, ad ogni curva del tempo. Così persino oggi ci puoi trovare, al riparo dei riflettori, calma e pace".

Come è riuscito a finanziare Gandu?
"Mi ha aiutato un amico dello Sri Lanka, e poi, per presentarlo a Berlino, ci siamo fatti prestare altri soldi. Il nostro modello economico è di stampo decisamente indie, così come il piano di recupero degli investimenti che siamo stati in grado di far funzionare".

Lei ha una sua casa di produzione, una factory con cui lavora abitualmente, dunque...
"Ho capito che per fare il cinema che voglio fare non potevo che essere anche il mio produttore. E la mia partecipazione alla scena indipendente indiana mi aiutato a realizzare quanti talenti, già rodati e in formazione, abbiamo qui; quel che manca sono invece produttori che si dedichino a sostenere il network indipendente e generare un modello sostenibile. Ho iniziato a lavorarci con l'assistenza di persone con enorme esperienza. Ed ho anche cominciato a sollecitare i miei amici perché si unissero e dessero vita a una piattaforma che rendesse possibile la creazione e la collaborazione fra artisti indipendenti. Il risultato è Overdose: un collettivo di talenti libero e allargato che riunisce musicisti, filmmaker, artisti, tecnici, produttori, avvocati e distributori con i quali ci consultiamo e che ci aiutano a continuare a produrre. Al momento circa 12 persone lavorano con me a tempo pieno nella Overdose. Si tratta di una piattaforma che mi piace guardare come una compagnia per la crescita dei media creativi, che sviluppa e produce contenuti alternativi, con speciale attenzione per film, musica e design. Negli ultimi anni abbiamo messo a punto un pool di risorse tecniche e creative che include apparecchiature HD e tutta la post produzione. Lavoriamo a stretto contatto con i nostri partner del suono, la Dream Digital Inc., che ci sostiene con le sue apparecchiature, col suo talento e la post produzione. Overdose è gestita dal nostro gruppo di lavoro a tempo pieno ed abbiamo anche il sostegno operativo di un fondo belga. Produciamo attivamente film indipendenti, e nel 2012 coprodurremo almeno tre film di registi esterni. Il primo sarà Greater Elephant di un giovane autore, Srinivas Sunderrajan: lo presenteremo come seconda impresa di BanglaBlack, la label creata per Gandu. Sono sporchi film da poco, che verranno girati con micro budget col fine di forzare i confini di struttura, racconto e tecnica. E, a parte il mio Sari, l'anno prossimo produrremo anche altri cinque documentari".'

Aggiornamento del 16 dicembre 2011: Zindagi Na Milegi Dobara è la pellicola vincitrice dell'edizione 2011 del River to River Florence Indian Film Festival.

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