02 gennaio 2011

IL MIO NOME È KHAN: RECENSIONI ITALIANE


A partire dal 26 novembre 2010, My name is Khan è stato distribuito nelle sale italiane, in edizione doppiata nella nostra lingua, col titolo Il mio nome è Khan. Vi ricordo che si tratta di una versione ridotta, destinata al pubblico occidentale. La recensione di My name is Khan redatta nel febbraio 2010 dalla nostra Diana si riferisce all'edizione integrale in lingua originale proiettata a Londra. Vi propongo di seguito una rassegna stampa delle recensioni italiane del film.


Corriere della Sera, Maurizio Porro, 26 novembre 2010:
'Il film di Karan Johar (...) rivela tutta la forza di commovente divertimento, formula narrativa, melodramma pop applicato a pubblico e privato, alla sfera politica come al razzismo post 11 settembre, non solo americano, verso i musulmani. (...) Nello stile Bollywood c’è posto per emozioni e passioni, anche contraddittorie: come si diceva una volta "mi sono divertito, ho pianto tanto". Confezionato con abilità ed umana suspense, molta musica (ma senza tentazioni musical, né coreografie) il film è l’epopea di un diverso che usa la propria specifica sensibilità, una specie di Rain man o di Forrest Gump indiano in cui s’identifica la star popolare in patria Shah Rukh Khan (...), mito e icona 45enne con una carriera di 70 film in cui ha cantato e ballato, gioito e sofferto (senza mai far sesso) sull’anima di molti personaggi, tanto da essere già nel Museo delle cere e il preferito di Sonia Gandhi che offre i suoi dvd agli ospiti. Nel film c’è di tutto e di più, talvolta di troppo, ma la folata emotiva che suscita è sincera pure se organizzata con stile teatrale che si appresta ora a catturare anime belle e cuori semplici occidentali con la consueta partner Kajol, bellissima diva asiatica. Tutto col nobile scopo di raccontare l’ingiusto isolamento musulmano, completo di orgogli e pregiudizi (...) riuscendo infine ad essere una storia che coinvolge a ogni latitudine parlando con calcolata ingenuità dell’umanità tutta, pur osservandola con gli occhi di un uomo così felicemente particolare e così infelicemente felice'.


'Siamo sinceri, questo venerdì c'è un solo film che vale la pena di vedere. Ed è una pellicola che farà discutere, perché lontana e poco adatta ai gusti occidentali, condizionata com'è dall'estetica del mercato cinematografico più grande del mondo, Bollywood. (...) Un melodramma persino troppo stucchevole. Ci pensa l'11 settembre a far virare tutto in un'assurda, crudele tragedia. Nel portare la colpa sulle spalle di innocenti che pagano la loro religione, anche se vissuta con rispetto e solidale integrazione. (...) Guardate questo film privi di pregiudizi: estetici ed etici. Qui non abbiamo il furbissimo Danny Boyle che cerca di ingannarci con The millionaire, un'India occidentalizzata e normalizzata, abbiamo piuttosto una cultura che tenta di sposarne un'altra. Rubando dal Forrest Gump di Zemeckis così come dal Rain Man di Barry Levinson'.


delCinema, Raffaele G. Flore, 24 novembre 2010:
'Mettiamolo subito in chiaro: Forrest Gump e Rain Man non c'entrano, anche se il protagonista (Shah Rukh Khan, mito di Bollywood specializzato in blockbuster) sfodera una performance che non sfigura di fronte a quelle di Tom Hanks e Dustin Hoffman. (...) Tra questa premessa e un finale diluito in troppe scene c'è un film che, tra ottimi spunti e qualche sbavatura, potrebbe anche far breccia alle nostre latitudini. Si sa, quello bollywoodiano è un mercato con caratteristiche tutte sue e (Il mio nome è) Khan, pur declinato secondo gusti e paradigmi graditi al pubblico occidentale, sembra rimanere un po' a metà del guado. Gli echi di quel mondo, la coppia di divi che Johar riunisce sullo schermo, il gigantismo della produzione e la lunghezza ingiustificata che alla fine appesantisce una fiaba dolce-amara, da una parte; uno svolgimento prevedibile e un po' troppo didascalico dall'altra: il personaggio di Khan sulle prime è davvero coinvolgente, non mancano momenti davvero commoventi e c'è un modo leggero e spensierato nel trattare temi (l'11 settembre, il razzismo ma anche le paranoie di chi d'improvviso si è sentito perseguitato, i lutti familiari) che il nostro cinema si sogna. Valga, insomma, la definizione del regista: "è un'epica storia d'amore". Dove la pellicola convince è nella prima parte, tra l'infanzia di Khan e il suo arrivo, oramai adulto, a San Francisco. Irresistibile nei tic e nei tormentoni che il suo accento americano amplifica (...), Khan cattura lo spettatore (...). (La seconda parte), come detto, si dilata a dismisura (...). Brava anche Kajol mentre il resto dei personaggi sono tratteggiati in modo stereotipato dalla sceneggiatura di Shibani Bathija la quale, come detto, gonfia eccessivamente la storia giustapponendo episodi tipo quello del complotto nella moschea, dell'uragano-Katrina e dell'accoltellamento: alla fine, incastrati nel meccanismo narrativo, giustificano l'happy end ma sembrano ridondanti e poco credibili. Orecchiabile e coinvolgente invece il repertorio di musiche (che in una produzione bollywoodiana hanno sempre un ruolo decisivo): azzeccate - forse fin troppo - e onnipresenti a punteggiare ogni scossone emotivo della pellicola. Idem per la fotografia che cattura un'America già vista ma ha il merito di coglierne anche quella faccia rurale e provinciale sulla quale si staglia la figura ingenua di Khan (...). Difficile che Il mio nome è Khan sbanchi il botteghino in Europa: più facile invece che rappresenti l'ennesimo step tramite cui l'ingiustamente snobbata produzione bollywoodiana possa farsi conoscere. Sfacciatamente mainstream, un po' melò ma senza mai essere 'paraculo', (Il mio nome è) Khan avrebbe potuto essere davvero un gran bel film. Peccato'.


Filmaker's Magazine, Angelo Mozzetta, 24 novembre 2010:
'Il tema centrale del film è certamente l’interpretazione della stella Shahrukh Khan, che interpreta alla grande la parte dello stupidotto geniale, curandone maniacalmente la voce, i gesti, l’espressione. Altrettanto bravo (o furbo) il regista Karan Johar a lasciargli spazio e a riuscire a ritagliarsi comunque la sua fetta di gloria girando con buon ritmo e costruendo spesso scene non banali su temi triti e ritriti. Kajol ha sicuramente un ruolo più semplice del protagonista, ma se la cava tutto sommato bene nelle scene drammatiche, mentre in quelle da commedia romantica brilla di luce propria. Azzeccati i volti del cast di contorno. I classici stilemi bollywoodiani ci sono tutti: la musica, gli scenari esotici, i colori sgargianti, l’estetica patinata, il manicheismo dei valori rappresentati, il buonismo di fondo, la recitazione sopra le righe, gli scopiazzamenti ai fratelli maggiori di Hollywood. La sorpresa, in questo film, sta in una confezione per metà socialmente impegnata, evento raro nel cinema indiano: non aspettatevi granché, il modello principale (oltre a Rain Man) è Forrest Gump, di cui questa pellicola sembra incarnare pregi e difetti. Lo sforzo, anche se tardivo visto che dalle Twin Towers è passato un decennio, va comunque tenuto in considerazione anche quando non qualitativamente apprezzabile. Come commedia, il film funziona; come film impegnato ha grossi problemi di introspezione, condizionato com’è dal dover raggiungere una fascia di pubblico (per cominciare l’India) così ampia e culturalmente eterogenea, e si riduce a un’accozzaglia di luoghi comuni a tratti imbarazzante per temi complessi come l’integrazione razziale, il terrorismo, la religione e il perdono; che poi qualche singola scena possa passare è tutt’altro discorso, come quella in cui Khan smentisce un terrorista che parla agli altri attentatori in moschea con l’esatta interpretazione di una delle più discusse sure del Corano. Ma c’è troppa ricerca di lacrime facili e consensi unanimi: il dolore per la perdita, gli afroamericani devastati dall’Uragano, l’amore materno... in via definitiva, una pellicola con troppe ambizioni per risultare compiuta e che, forse proprio per questo, riflette in se stessa Bollywood: può funzionare fino a quando non si prende troppo sul serio'.


NonSoloCinema, Ilaria Falcone, 24 novembre 2010:
'Il mio nome è Khan è una grande storia d’amore, di cultura, di integrazione e di felicità (...). Il regista Karan Johar (...) ha compiuto un lavoro notevole: il suo viaggio per spiegare le complessità del mondo indiano, e quelle del mondo occidentale, attraverso l’intelligenza di un personaggio diverso e di una storia d’amore, arriva diritto al cuore delle persone, toccando corde emotive con una melodia filmica trascinante, dall’impegnata sceneggiatura all’incalzante colonna sonora. "Il mio nome è Khan è ambientato in America ma il sentimento del film è profondamente radicato nelle tematiche che gli indiani affrontano quotidianamente nel loro Paese.”, afferma Johar, "Molta della tolleranza che Rizwan spera di diffondere tra gli americani nel corso del suo viaggio è la stessa che può influenzare e forse giovare agli indiani in tutto il mondo, molti dei quali tuttora nutrono pregiudizi l’uno verso l’altro. Alla fine, come regista, ti rendi conto che il cinema non può cambiare il cuore e la mente di un miliardo di persone, ma può forse far nascere una conversazione che, a volte, è quanto basta per accendere un fuoco. È una storia d’amore epica tra due persone che hanno un’unica visione del mondo”. Sono lontani elementi come pietà e vittimismo, come sono lontani i toni sgargianti di Bollywood, la forza speciale del film è l’amore universale. Il mio nome è Khan sa essere dramma e commedia, la sonorità sentimentale attraverso la quale il film prende ritmo rende leggiadri i 130’ di durata'.


La Voce, Paolo Quaglia, 25 novembre 2010:
'Forse sarebbe piaciuta a Frank Capra, ma siamo un po' troppo oltre tempo massimo. Più probabilmente la retorica insita in tutta la pellicola ha trasformato questo prodotto, direttamente da Bollywood, in un esempio per tutti gli immigrati che arrivano in Usa per lavorare e vivere serenamente. Ma che noia! Costruito in maniera furba non gioca assolutamente sulla novità, ma sull'emulazione. Quella dei Forrest Gump, dei Rain Man e del 'diversamente abile' in generale che tanto commuove le platee di tutto il mondo. Se gli Usa e il resto del mondo parlano di ritardati e incassano perché non farlo noi, avranno pensato i produttori. In stile Oltre il giardino, ma con un risultato diverso, la parabola racconta, come se ce ne fosse bisogno, la storia del solito autistico (simpatico e naif da contratto) che vorrebbe vivere nella terra delle opportunità. (...) La parabola funziona sia sotto il punto di vista dei dialoghi che della messa in scena, se ci si ferma alla superficie delle cose. Occorre scegliere se il cinema è una passione o solo un argomento per parlare, davanti ad un negroni, con la 24enne che state cercando di circuire da mesi. Ed agire di conseguenza. Il buonismo è realmente arrivato alla fine dei suoi giorni, non è più possibile pensare a pellicole del genere se non in chiave guadagno. Il film si dipana per 150 minuti di pochi alti e moltissimi bassi, ma scorre in maniera decente. Se il cinema fotocopia fosse uno stile apprezzato allora questo sarebbe un buon film, se le commedie correlate di lacrima in primo piano fossero l'unico genere cinematografico conosciuto, potrebbe essere intrattenimento di classe, ma non è così. Anche andando ad analizzare la commedia anni '50 del sopracitato Frank Capra, questo film latita, forse per mancanza di contesto, forse perché ne abbiamo visti così tanti che la mente dello spettatore è satura di intenzioni nobili, di integrazione e soprattutto di 11 Settembre'.


Periodico Italiano, Carmela Ferrentino, 25 novembre 2010:
'Rizwan Khan, personaggio ben riuscito di Shahrukh Khan, star del cinema indiano. Un eroe romantico il suo, che ricorda tanto Forrest Gump (con il suo peregrinare in giro per l’America) e commuove come Dustin Hoffman in Rain man. Un ruolo difficile, un tema spinoso ma trattato con leggerezza e delicatezza, con un tripudio di colori e musiche, senza sprofondare nel banale o nel grossolano, solo come a Bollywood sanno fare'.


Sentieri Selvaggi, Valentina Gentile, 26 novembre 2010:
'Il cinema, stavolta non hollywoodiano ma bollywoodiano, reinventa la figura classica del naif con qualità eccezionali, del diverso che ha qualcosa da insegnare a tutti. Qui in particolare l’autismo del protagonista si intreccia al tema del terrorismo e del terrore post-2001. Khan, indiano musulmano, dal suo parziale isolamento, non riesce a capire e non sopporta le logiche strampalate di un mondo in cui essere fedeli all’Islam è diventato all’improvviso sospetto. Capisce qualcosa che molti di noi altri normali non sono stati in grado di capire. (...) Shah Rukh Khan si immerge diligentemente nel nuovo ruolo, dimostrando di aver studiato attentamente le mosse dei suoi predecessori Dustin Hoffman e Tom Hanks. Il risultato è alquanto pasticciato e petulante, ma tutto sommato più che dignitoso. My name is Khan è certamente un film affettato nella sua semplicistica tesi e nell’altrettanto scontata messa in scena, ma non è privo di momenti gradevoli. Spettacolarizzare l'impegno sembra essere l’intento del regista Karan Johar, che in questo ha raggiunto l’obiettivo. Sfacciatamente furba la mossa di costruire tutto intorno alla super star Khan, protagonista assoluto e strabordante, che con il personaggio interpretato condivide anche il cognome'.

Shah Rukh Khan e Farah Khan - set di My name is Khan

Cinefilos, Raffaella Lippolis, 27 novembre 2010:
'Il mio nome è Khan è un viaggio indimenticabile in un mondo a noi lontano, ma anche così vicino. (...) Il mio nome è Khan è un'opera assolutamente valida in ogni sua componente, dal cast alla regia, dalle scenografie alla colonna sonora. La mano di Karan Johar si riconosce, soprattutto nella struttura narrativa che vede contrapporsi a una prima parte più spensierata una seconda decisamente più drammatica. Non vi sono tuttavia balli e colori fluorescenti come nella tradizione indiana, ma tecniche di ripresa più vicine al cinema occidentale, con campi lunghi e panoramiche non sperimentate in precedenza dal regista. E l'impostazione di Karan Johar, che nella credibile rappresentazione dei rapporti umani mostra la sua grande sensibilità e concretezza, è riscontrabile in ogni scena e nel modo in cui dirige (ottimamente) gli attori. Il film si regge ovviamente su Shah Rukh Khan (...). L'attore offre un'interpretazione monumentale, di certo la più impegnativa della sua ventennale carriera, e l'intensa preparazione per il ruolo di Rizwan Khan è ravvisabile in ogni gesto, sguardo, espressione e atteggiamento del personaggio. Per quanto sempre efficace in ogni interpretazione, in questo film in particolare Shah Rukh Khan sveste i suoi panni di attore fino a diventare in tutto e per tutto il suo personaggio. Benché quest'ultimo presenti alcune affinità con i personaggi di Forrest Gump e di Raymond in Rain Man, l'attore non imita i modelli offerti da Tom Hanks o Dustin Hoffman, bensì interpreta in maniera personale un diverso, che questa volta dovrà misurarsi anche con il fanatismo e la discriminazione razziale. Seguendo una chiave di lettura religiosa, il film è un omaggio alla tolleranza in tutte le sue forme, incarnata da un protagonista che, nella sua purezza morale e genuinità, ricorda molto il principe Lev Myskin de L'idiota di Dostoevskij. Caratterizzato da una bontà e un candore inediti in un mondo dominato dall'odio e dall'egoismo, Rizwan Khan è un uomo che non sa cosa sia l'individualismo, ma che nella generosità e amore nei confronti dell'altro realizza se stesso. (...) Oltre al protagonista, emerge l'ottima performance di Kajol nei panni di Mandira: la brillante attrice è in grado, come in ogni film da lei interpretato, di recitare magnificamente sia le parti più briose sia quelle più drammatiche e ricche di pathos. E anche ne Il mio nome è Khan compare la particolare alchimia tra Kajol e Shah Rukh Khan, la coppia più amata di Bollywood, la cui ultima collaborazione risaliva a nove anni fa, in un'altra acclamata pellicola diretta da Karan Johar. Sebbene, a differenza degli altri film del regista, non compaiano riferimenti più o meno impliciti alle altre pellicole da lui dirette (come motivetti musicali o nomi di personaggi), in alcuni passaggi è possibile notare qualche similitudine con alcuni spunti presenti in altri film bollywoodiani: ad esempio, l'idealizzazione dell'America come il Paese in cui è possibile realizzarsi (ma anche un paio di riferimenti a un'altra pellicola che vedeva protagonista Shah Rukh Khan, ovvero Swades, We the people). Nello sviluppare tematiche scottanti e attuali come il fanatismo religioso e il razzismo, la minaccia del terrorismo le mistificazioni della giustizia, Il mio nome è Khan non cede al pietismo e al sentimentalismo come si potrebbe temere in partenza. Al contrario, il film esplora tali tematiche seguendo la prospettiva del protagonista, che crede in una morale semplice ma non per questo banale, secondo cui "i buoni fanno le cose buone e i cattivi fanno le cose cattive". Benché tale principio possa apparire semplicistico, occorre ricordare che esso viene adottato da una persona affetta da una disfunzione mentale, per cui l'etica risulta necessariamente semplificata per essere tale. In definitiva, il film stimola la riflessione, commuove ma diverte anche, in una stretta commistione fra commedia e tragedia come solo il cinema bollywoodiano sa fare. Di certo non si può rimanere indifferenti al messaggio di speranza di cui Il mio nome è Khan si fa portavoce'.
(Grazie a Raffaella Lippolis per l'autorizzazione a pubblicare stralci del suo testo)


CineSpettacolo, José de Arcangelo, 27 novembre 2010:
'Un dramma politically correct (anche troppo) ed una grande storia d’amore, proprio come quelle che piacciono al pubblico americano - non solo - e che lo stesso cinema statunitense ama fare. Non è un caso se ad un certo punto l’opera riporta in mente ‘il piccolo grande (anti)eroe’ di Forrest Gump e, forse, in modo ancora più ammiccante e riuscito. (...) La pellicola si rivela un melodramma - genere di cui gli indiani sono maestri - che prende e coinvolge lo spettatore, senza annoiarlo né infastidirlo, nonostante la durata di oltre due ore, trasformando l’eccezione in regola, dosando magistralmente il dolce e l’amaro, il sorriso ed il pianto, quindi le emozioni che sono l’anima del film. Scritto da Shibani Bathija - che aveva collaborato con Johar nel precedente film - la pellicola vanta, appunto, una sceneggiatura di ferro, oltre che un ottimo narratore. (...) Un dramma pacifista costruito senza sbavature come un’ottima telenovela, contro ogni pregiudizio ed ogni ingiustizia (...). Il regista ha un grande mestiere e lo dimostra e la sua intenzione era quella di dare una prospettiva diversa a un mondo tuttora impelagato nelle incomprensioni e nell’intolleranza culturale che oggi imperano (...). "Il punto di Karan come narratore - spiega la sceneggiatrice - è la sua capacità di vedere e capire i rapporti in un modo che sfugge alla maggioranza di noi. È dotato di una profonda intensità che gli permette di percepire le dinamiche relazionali. Se non conosce i soggetti che sta osservando, Karan trova una spiegazione costruendosi una storia su di essi. I suoi film rappresentano i rapporti interpersonali nel modo più semplice possibile, senza attenuare le complessità e le lotte che le coppie affrontano oggi sia a casa che fuori. Con Il mio nome è Khan volevamo allontanarci da quella che è la quintessenza dell’eroe dei film indiani per narrare la storia di un uomo e di una coppia, separati dal resto di noi per una ragione precisa". È questo il nucleo del film. E si vede'.


Everyeye, Stefano Camaioni, 27 novembre 2010:
'Con il passare degli anni il cinema abbatte sempre più i confini del tempo e dello spazio, affronta storie lontane chilometri e regala ai suoi spettatori una nuova finestra sul mondo. Da sempre escluso dai circuiti occidentali, il cinema Bollywoodiano è sempre stato visto con occhio cinico e schernito a causa del suo spirito spesso troppo lontano dal nostro. Da qualche tempo però, grazie ad autori intelligenti e a storie che di nazionale hanno ben poco e di umano davvero tanto, l'occidente ha iniziato a drizzare le orecchie al suono di Bollywood. Shah Rukh Khan è, per gli indiani, quello che Johnny Depp è per gli americani: una superstar di notevole talento, carismatica e ricca di fascino. Probabilmente impegnati nei ruoli più complessi della loro carriera, Khan e Kajol interpretano una storia drammatica, ricca di umanità e lontana dai canoni restrittivi del cinema di genere. (...) My name is Khan è la storia di un supereroe. Il superpotere del protagonista è la sua incredibile umanità, chiaramente 'aiutata' dalla sua malattia, affrontata nel film in una veste incredibilmente poetica. (...) La morale di fondo, perché di morale si tratta, è che un uomo, qualunque uomo, può essere speciale pur rimanendo nella sua ordinarietà (...). Karan Johar, regista del film, ha dato alla pellicola un tono autoriale proprio solo degli autori consapevoli, creando dal nulla una storia piacevole, dai toni impegnati che tratta di Asperger, guerra e barriere culturali ricamando su tutto ciò una semplicissima ed efficace storia d'amore. (...) Girato bene e con moltissimi mezzi, My name is Khan è un vero e proprio colossal Bollywoodiano, lontano dalle produzioni che in passato avevano fatto storcere il naso al resto della popolazione mondiale abbracciando oggi, con la sua genuinità, moltissimi spettatori'.


Long Walk Home, 28 novembre 2010:
'Film ingenuo ma con vari momenti di interesse. (...) Scorrevole, nonostante (...) (la) durata, ricco di quegli elementi tipici del cinema indiano – colori accesissimi, un’altalena di emozioni forti – il film si presenta come un melodramma dagli evidenti riferimenti a Forrest Gump e Mi chiamo Sam, rispetto ai quali Rizwan è una vera e propria incarnazione musulmana. Stessa relazione significativa con la madre, stessa semplicità contagiosa, stessa genialità, a suo modo, nei rapporti umani. La novità portata dal film diretto da Karan Johar, nome di punta del cinema commerciale indiano, è ovviamente il contesto, prima e dopo l’11 settembre, data chiave per comprendere i fatti di Khan e, probabilmente, di parecchio cinema recente. Il film soffre di uno schematismo a tratti irritante: il cambiamento repentino nei riguardi di Khan dopo le Torri, il finale risibile e la stessa relazione con la bella Mandira, nonostante i bei momenti del corteggiamento e della vita in casa. E la carne messa al fuoco è tanta: c’è la questione religiosa (Mandira è indù), l’integrazione, la diversità e l’accoglienza. Il dramma della morte e il rapporto con la celebrità - perché Rizwan proprio come Forrest diventerà anche una star -; il terrorismo e il pregiudizio sull’Islam, un uragano in Georgia e addirittura la politica di due Presidenti degli Stati Uniti. Tanto, forse troppo da gestire per una regia per molti versi enfatica (tutti quei ralenti...) e per una sceneggiatura che per voler dire tutto in relativo poco tempo semplifica, brucia le tappe e abbandona personaggi, come quello della cognata di Rizwan, potenzialmente ricchi di senso e di emozioni. Ma, al di là dei tanti difetti e anche di un certo schematismo ideologico, Il mio nome è Khan ha punti di interesse. Su tutto, la semplicità di sguardo del protagonista, interpretato dall’ottimo Shah Rukh Khan penalizzato da un doppiaggio anonimo, la sua capacità innata di guardare al bene della realtà e anche l’attenzione riposta sul figlio di Mandira. E, infine, questa figura della madre, concretissima'.


CineZapping, 29 novembre 2010:
'Ci sono troppi pregiudizi sul cinema made in Bollywood, e questo film è la prova che un prodotto non deve essere necessariamente confezionato negli USA per riuscire ad ottenere successo in tutto il mondo. (...) Diretto da Karan Johar, Il mio nome è Khan è un film ricco di imperfezioni, ma la sua capacità è quella di farle passare tutte in secondo piano per lasciare spazio ai contenuti. Si tratta di argomenti attuali ed universali, dall’amore alla religione, senza tralasciare gli ultimi avvenimenti storici, dal crollo delle torri gemelle all’elezione del Presidente Obama. Con la dolcezza e l’ingenuità trasmesse dalla figura del protagonista, la storia si dipana su vari livelli e non può fare a meno di intenerire lo spettatore, seppure i 161 minuti di durata risultino pesanti sul finire della pellicola. Dettaglio trascurabile, anche questo: il film è un vortice di emozioni e sensazioni, senza vittimismi e nemmeno senza grandi pretese. (...) Un'argomentazione coraggiosa, un tema tutt’ora scottante, ma ancor più coraggioso è il nostro protagonista, interpretato da un bravissimo Shah Rukh Khan. Calatosi perfettamente nella parte, l’equivalente di Johnny Depp in India è affiancato dalla bella Kajol (...). Il mio nome è Khan è una storia incredibile, ma allo stesso tempo intrisa di elementi semplici che caratterizzano il nostro quotidiano (...). La storia e la religione, argomenti che si intrecciano e che fanno da sfondo a sentimenti genuini, sani, profondi. (...) Una storia capace di mettere insieme un mix di vite ed ingredienti: la diversità, l’amore, l’abnegazione. Un lavoro tecnicamente imperfetto ma capace di offrire emozioni, a volte forse dilungandosi, senza eccesso di sentimentalismi, senza volgarità, che di questi tempi è cosa fondamentale'.


WakeUpNews, Adriano Ferrarato, 1 dicembre 2010:
'Karan Johar ha messo in campo una storia a tratti commovente (ma comunque divertente e attiva in numerosi punti), portando sullo schermo il cinema Bollywoodiano troppo spesso considerato di livello più basso rispetto a quello occidentale. E pur con qualche esagerazione e colpi di scena un po’ scontati, la trama cattura e genera numerosi spunti di riflessione. In particolare, gli attori in campo, anzi l’attore. Shah Rukh Khan, la cui interpretazione è stata a dir poco straordinaria. Carismatico, affascinante e soprattutto credibile. È stato sorprendente vedere un professionista lavorare a fondo per fare cose fuori del comune e non restare colpiti dalla semplicità che riesce ad esprimere. (...) Accanto al bravissimo (Shah) Rukh, Kajol si è rivelata un ottima scelta nel ruolo femminile di Mandira: ragazza molto bella e dal sorprendente carisma, ha mostrato anche un ottimo lato sensibile (tuttavia spesso ha calcato un po’ la mano nelle scene di maggior intensità). Dovendo entrare in una condizione complessa, quella di una donna innamorata contro ogni veto e proibizionismo, è riuscita davvero a svolgere un ottimo lavoro. (...) Il film di Johar può davvero essere letto in molti modi: inno alla fratellanza, un invito ad aprirsi maggiormente alla conoscenze delle culture diverse da quelle occidentali, una parola in più nel tentativo di abbattere le disuguaglianze sociali. Ma soprattutto, è una grande storia d’amore che dimostra come la vera pace tra gli uomini si ottiene solo affidandoci ai nostri sentimenti più limpidi'.


Film-Review, Barbara Pianca:
'Film indiano pensato per il mercato estero, ha per protagonisti due tra i volti più celebri di Bollywood, i divi Shahrukh Khan e Kajol (...). Quanto al genere cinematografico (...) Bollywood ha fatto la sua fortuna con i melò (...). Anche questo, se pur destinato a un pubblico internazionale, ha il respiro e lo sguardo tipici del cinema indiano contemporaneo. È un melò on the road, una storia d’amore romantica, con una fotografia e una scelta d’inquadrature tendenti al cartolinesco, un film in cui la presenza della musica non è mai di contorno. Però, nonostante l’elemento ricattatorio per eccellenza ci sia, e cioè il protagonista irresistibile perché sempliciotto e puro di cuore - formula già arcisperimentata al cinema da Forrest Gump a Rain Man per citare solo i titoli più famosi - la pellicola cerca di dipanarsi attraverso le strade dell’onestà e della semplicità. Un tentativo, a volte stucchevole e a volte grossolano ma mai furbo, di verità. Dove la verità reclama di essere semplice, chiara, o bianca o nera, o buona o cattiva. (...) Ma è un’operazione che ha insiti in sé dei rischi, come quello di creare personaggi secondari funzionali e poco tridimensionali'.


Ondacinema, Mirko Salvini (aggiornamento del 21 agosto 2011):
'Rizwan Khan è il protagonista dell'ultima fatica di Karan Johar, uno fra i più influenti, famosi e chiacchierati personaggi del cinema indiano. (...) Il suo Koffee With Karan è un talk show seguitissimo che può vantare fra i suoi ospiti i nomi più illustri dello show biz del sud continente. (...) Johar non è un nome conosciutissimo in Europa ma il fatto che uno studio come la 20th Century Fox abbia partecipato alla produzione e distribuzione del suo nuovo film, fiduciosa nel prodotto al punto da garantire un'uscita nelle sale italiane (a seguito di passaggio al Festival di Roma), non deve assolutamente sembrare casuale. Probabilmente My Name Is Khan (...) in Italia non riuscirà a riscuotere lo stesso successo ottenuto in patria o in altri Paesi ma per un film bollywoodiano già arrivare nelle nostre sale è un traguardo notevole (considerata l'assoluta indifferenza con cui i nostri connazionali guardano ad una delle cinematografie più popolari del mondo, ritenendola più un oggetto di curiosità che un da sempre importantissimo polo produttivo). All'appuntamento col pubblico nostrano Johar si presenta col suo film più ambizioso e impegnativo, incentrato su un tema interessante e poco indagato: l'ondata di paranoia e di razzismo che investì la popolazione asiatica e di religione musulmana residente negli States all'indomani degli attacchi alle torri gemelle. (...) Questo dolente e grave aspetto, vero e proprio dramma nel dramma, è stato finora raccontato nell'episodio di 11'09"01 diretto dalla bella Mira Nair, nel pakistano Khuda Kay Liye (2007) di Shoaib Mansoor e nel recente New York di Kabir Khan, e il successo di queste pellicole come del film di Johar incoraggerà probabilmente altri registi a imitarli, visto che i numeri hanno dimostrato che un pubblico per questo genere di storie si può trovare. Dopo essere stato un vedovo alle prese con una figlia piccola e problemi di cuore causati da una pestifera amica di gioventù in Kuch Kuch Hota Hai (1998), un figlio ribelle ai matrimoni combinati in Kabhi Khushi Kabhie Gham (2001, film che sull'argomento affondava il coltello più profondamente che il contemporaneo leone d'oro veneziano Monsoon Wedding), e un padre di famiglia amareggiato da tutto e tutti che trova una ragione di vita grazie ad una storia extraconiugale in Kabhi Alvida Naa Kehna (2006) (...), Shahrukh Khan è nuovamente complice del regista e interpreta uno dei suoi personaggi più insoliti: non uno dei consueti macho men scavezzacollo e sicuri di sé, però sotto sotto assai sensibili (d'altronde già da un po' la megastar ha capito che variare la formula alla sua carriera fa soltanto bene!) ma una sorta di Candide contemporaneo (anche se ai produttori devono essere sembrati più promettenti i paragoni con Rain Man o Forrest Gump) che con dolcezza e innocenza porta a riflettere su una pagina buia della storia recente. (...) Mandira (...) ha gli occhi splendenti e l'indomabile energia di Kajol, la più importante fra le partner cinematografiche di Shahrukh. Compagni di scena in alcuni dei più fortunati titoli indiani degli anni novanta, tanto da aver formato una delle coppie più celebri della storia di Bollywood, Shahrukh e Kajol non avevano lavorato più insieme da quasi 10 anni (..), complici anche il matrimonio della diva col collega Ajay Devgan (altro volto celeberrimo del cinema indiano) e la successiva maternità che l'avevano portata a defilarsi dalle scene (sulle quali fortunatamente è rientrata da qualche tempo a quasi pieno regime). Ovviamente l'aver riunito questa coppia d'oro del cinema asiatico è da iscrivere fra i colpacci di Johar e molto del successo che il film ha riscosso lo si deve anche e soprattutto a questo. (...) Questo tentativo di Johar di affrontare un argomento così difficile è stato sicuramente fortunato e resta indubbio che My Name Is Khan ha la capacità di coinvolgere del miglior cinema popolare, grazie anche ad una colonna sonora di grande effetto (altro elemento irrinunciabile di un film indiano che si rispetti). Tuttavia, fermo restando che è inutile aspettarsi da Bollywood rigore brechtiano o denunce in stile Ken Loach, alcuni entusiasmi paiono eccessivi, come quelli ad esempio nei confronti della sceneggiatura firmata dal regista insieme a Shibani Bathija, dimentichi forse di alcune caratterizzazioni deboli (in pratica tutti i personaggi americani, affidati ad attori modesti o tendenzialmente macchiettistici), di episodi malriusciti come quello dell'uragano che travolge un paesino della Georgia (con riferimento al disastro di Katrina, pretestuoso nelle intenzioni, desolante nei risultati) (...), o di momenti imbarazzanti come l'incontro col sosia di Obama; senza dimenticare tutta una serie di lungaggini che caratterizzano l'ultima mezz'ora del film. Peccati non veniali, ma che non rovinano il piacere di rivedere insieme la coppia di bravissimi protagonisti o la speranza che questa (quasi) prima volta bollywoodiana sui nostri schermi non sia anche l'ultima'.

Kajol - set di My name is Khan
 
Vedi anche:
- Il mio nome è Khan in DVD, 30 aprile 2011

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